mercoledì 23 novembre 2016

Cienfuegos - Leggi l'anteprima gratuita dell'ebook


Cienfuegos

Un mondo nuovo
Di Alberto Vázquez-Figueroa

Edizione digitale © 2016

Edizioni
Logus mondi interattivi
Traduzione: Silvia Cremascoli
eBook design e cover: Pier Luigi Lai - Logus mondi interattivi

© Tutti i diritti riservati.
Vietata la riproduzione, anche parziale.
ISBN: 9788898062805


Alberto Vázquez-Figueroa

Cienfuegos

UN MONDO NUOVO
* * *
Edizioni


A Iche:

l’unica donna che conosco in grado

di dare sempre tutto senza
chiedere nulla in cambio


PREMESSA

Probabilmente, se dovessimo definire l’opera di Alberto Vázquez-Figueroa diremmo che è immaginazione pura.
Le sue storie sono avventura, divertimento e insidia. Tra i suoi lettori c’è gente di ogni tipo, di ogni strato sociale, culturale e professionale. È uno di quegli scrittori che tutti possono leggere e apprezzare.
La letteratura di Vázquez-Figueroa è piena di peripezie, di idee e di storia, e tutto questo riecheggia nella mente del lettore quando finisce un suo libro. L’autore riesce a creare una memoria peculiare in quelli che lo seguono nei suoi “viaggi letterari”
È un po’ ciò che sostiene Robert Louis Stevenson:

la lettura deve assorbirci, è un processo voluttuoso […]
ci dobbiamo dimenticare di noi stessi,
e finire il libro con la testa piena del più confuso
e caleidoscopico ballo di immagini, incapaci di dormire […]1


L’opera di Vázquez-Figueroa è una rivendicazione per quel tipo di letteratura che molte volte è stata definita superficiale, di svago, giovanile. D’altronde, proprio i libri di Stevenson, Dumas, Conrad, London, Verne, da cui l’autore prende spunto, sono stati capaci di formare generazioni di lettori capaci di ritrovare nel loro futuro quegli universi nuovi e sconosciuti delle pagine della loro infanzia.
Vázquez-Figueroa mantiene lo stesso stile in ogni sua opera: tutto è subordinato all’azione dei personaggi, alla loro descrizione e alle loro parole. In questo modo tutto è immediatamente chiaro per il lettore: può immaginare tutto senza problemi… Le parole si diluiscono, quasi scompaiono per lasciare spazio a immagini, azioni e dialoghi.
E la Storia? L’autore ricrea liberamente, ed è un passaggio fondamentale per tutti i romanzi storici e di avventura di Vázquez-Figueroa. Come per Dumas, i personaggi storici, siano essi più o meno importanti, non sono più di uno strumento per sviluppare una storia intrigante.
La Storia diventa uno strumento per sedurre il lettore.

29 luglio 2016
Roberta Botta


PARTE PRIMA

INFANZIA




Non ebbe mai un nome di battesimo.
Da quando ne aveva ricordo – e la sua memoria si limitava a boschi, dirupi, solitudine e capre di montagna –, tutti l’avevano sempre chiamato con il soprannome di Cienfuegos e non aveva mai saputo con certezza se quel nome derivasse dal cognome della madre, o dal colore dei capelli, o se fosse semplicemente un soprannome dai motivi ignoti.
Parlava poco.
Le sue conversazioni più profonde non erano mai fatte di parole, ma di suoni, fischi prolungati e cadenzati appartenenti a un linguaggio proprio ed esclusivo dei pastori e dei contadini dell’isola, utilizzato per comunicare da montagna a montagna; in confronto alla semplice voce umana, era senza dubbio la forma d’espressione più logica e pratica in quella natura selvaggia.
In un mattino fresco e tranquillo, in cui i suoni riecheggianti da una parte all’altra sulle pareti di roccia sembravano attraversare con dolce soavità l’aria umida e pulita, Cienfuegos era in grado di instaurare una conversazione perfettamente chiara con lo zoppo Bonifacio, che da fondovalle lo metteva solitamente al corrente delle informazioni sul villaggio trasmessegli a sua volta dal cugino Celso, il Chierichetto.
Venne così a sapere che il vecchio Padrone stava per ricevere l’estrema unzione e intraprendere il Camino de Chipudes, il che significava che presto nuovi signori sarebbero arrivati alla Casona; senz’ombra di dubbio la prima vera novità degna di considerazione nei suoi pochissimi anni di esistenza.
Nessuno sapeva quanti anni avesse.
Non era possibile in alcun modo saperlo, dato che nessuno si era preso la briga di registrare il giorno o l’anno in cui era venuto al mondo, e nonostante il suo corpo, robusto e muscoloso, fosse già quello di un giovanotto fatto e finito, il viso, la voce e la mentalità erano invece quelli di un adolescente che non voleva ancora abbandonare il difficile e affascinante mondo dell’infanzia.
Non ebbe neanche un’infanzia.
I suoi giochi consistevano solamente in lanciare pietre e fare il bagno negli stagni, sempre in solitudine, mentre i suoi unici affetti erano alcuni uccelli, un vecchio cane e capretti che alla fine crescendo diventavano bestie noiose, sgradite e astiose.
Sembra che la madre fosse una capraia molto più selvaggia e maleodorante delle stesse bestie di cui si occupava, e il padre quel Padrone che ora si trovava quasi nel braccio della morte e sarebbe andato nella tomba senza ammettere di aver lasciato sull’isola più di trenta figli bastardi dai capelli rossicci.
La bella chioma a metà tra il biondo e il ramato, che gli ricadeva liberamente sulla schiena, rappresentava senz’ombra di dubbio l’unica eredità visibile lasciatagli dal genitore; un’eredità che condivideva con un’altra dozzina di ragazzini nelle vicinanze, prova vivente degli incontenibili appetiti sessuali e dell’innegabile fascino del signore della Casona.
Non sapeva leggere.
Dato che a malapena parlava, la lettura gli sarebbe servita a poco, considerato che la maggior parte delle parole gli era del tutto sconosciuta, ma non c’era nessuno, invece, su quell’isola che conoscesse meglio i suoi segreti, che ne sapesse di più sulla natura e i suoi continui cambiamenti, o che fosse capace di lanciarsi con più decisione tra le falesie e i dirupi, saltando i precipizi aiutato solo da un coraggio che rasentava l’incoscienza e una lunga pertica che usava per superare vani larghi fino a dodici metri o per lasciarsi scivolare, in modo da scendere in pochi minuti da un faraglione scosceso e irregolare.
Aveva caratteristiche un po’ da capra, un po’ da scimmia e un po’ da gheppio, perché a volte riusciva incredibilmente a rimanere in equilibrio su una semplice sporgenza rocciosa a metà di un baratro e si sarebbe potuto credere che a un certo punto, nel saltellare da una roccia a quella di fronte, rimanesse sospeso e sostenuto in aria, come se la sua profonda ignoranza gli impedisse di accettare che esistevano sin dall’antichità leggi rigide e inamovibili sulla gravitazione dei corpi.
Non mangiava quasi nulla.
Gli erano sufficienti alcuni sorsi di latte, un po’ di formaggio e i frutti selvatici che trovava sul suo cammino, ed era senza dubbio un vero e proprio miracolo della sopravvivenza, dato che solo la mano di Dio avrebbe potuto attribuirsi il merito di averlo fatto crescere forte e sano nei lunghi anni in cui aveva vissuto praticamente da solo nel cuore delle montagne.
Si sentiva felice.
Non conoscendo altro che quella vita di perenne libertà, in cui non doveva neanche dipendere da un luogo che potesse considerare come alloggio permanente, vagabondava a suo piacimento dietro al bestiame senza rendere conto a nessuno delle sue azioni, se non a se stesso o al fattore vecchio e indifferente che due volte all’anno saliva a controllare che gli animali continuassero a incrementare il patrimonio del suo padrone.
In realtà, non interessava molto a nessuno di quelle bestie, che costituivano solo uno dei tanti greggi sparsi per i dirupi nelle vicinanze, greggi che divenivano semplici numeri al momento di determinare il valore di una proprietà che negli ultimi tempi aveva molti più interessi nel mare e nel florido commercio con la metropoli, piuttosto che nella coltivazione dei terreni o nello sfruttamento razionale di carne e latte.
Seduto in cima alla falesia, con le gambe che ondeggiavano su un baratro che avrebbe ritorto lo stomaco a chiunque dalle vertigini, il ragazzo osservava spesso il porto in lontananza o le grandi navi ormeggiate nella baia, chiedendosi cosa diamine potessero contenere i fusti e le balle che calavano a terra e a chi diavolo potessero servire tante cose assurde.
Nei primi tredici anni della sua vita, Cienfuegos si limitò, quindi, a essere lontano spettatore di una vita che andava sviluppandosi con particolare monotonia a fondovalle o nella baia, senza mai dimostrare il benché minimo interesse nel prendervi parte, dato che le poche volte in cui aveva osato osservarla da vicino, era giunto alla dolorosa conclusione che si trovava molto più a suo agio tra le capre.

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La prima volta che visitò il villaggio, un prete lo rincorse con l’infausto proposito di battezzarlo e di dargli un nome, ma la sola idea che gli bagnassero la testa con l’acqua benedetta mentre pronunciavano parole oscure gli fece pensare che fosse roba da stregoni, al che optò per la soluzione più semplice, ossia afferrare la sua pertica, fare un salto fin sul tetto della chiesa e da lì saltellare verso una roccia vicina, cosa che lo portò subito sul suo terreno di gioco e gli permise di fare ritorno senza problemi alle sue tranquille gole e montagne.
Anni più tardi, su richiesta dello zoppo Bonifacio, decise di scendere di nuovo in paese per fare rimbombare i tamburi durante la festa del santo patrono e anche se quel giorno il prete era troppo occupato per gironzolargli dietro, ebbe lo stesso la sfortuna di imbattersi in una viuzza solitaria nella vedova Dorotea, una donnona enorme e baffuta che si ostinò ad assicurargli che era stata amica di sua madre e perciò non poteva accettare che il figlio di una persona di cui conservava ricordi tanto piacevoli dormisse all’aria aperta.

Entrare in una casa fu un’esperienza traumatizzante per il giovane pastore dai capelli rossi, dato che appena la porta si chiuse alle sue spalle si sentì come se l’avessero seppellito vivo, fu invaso da una profonda angoscia ed ebbe l’impressione che respirare liberamente gli costasse uno sforzo enorme.
Come se non bastasse, l’invadente cicciona si mise in testa l’assurda idea che lui puzzava di letame e di caprone, ignorando i suoi stessi fetori e il sudore che le scendeva dalla fronte e le inumidiva il baffo, finendo quindi col metterlo in una bacinella d’acqua tiepida per strofinarlo con insistenza mentre lo insaponava scrupolosamente, fino a farlo risplendere e odorare di lavanda.
Poco dopo accadde il fatto più assurdo e incredibile di cui il povero ragazzo avesse mai avuto notizia, visto che sebbene non avesse mai sentito parlare di cristiani antropofagi, avendo sempre creduto che fosse un’abitudine tipica dei selvaggi africani, la vedova Dorotea dimostrò la sua smisurata passione per la carne umana lanciandosi con ansia sulle sue cosce, apparentemente decisa a divorarlo vivo a cominciare dalle sue parti più delicate ed accessibili.
Con un urlo di terrore l’impaurito Cienfuegos fece un salto, rischiando di lasciarle un pezzo di prepuzio tra i denti, e buttandosi di testa dalla finestra cadde in tutta la sua lunghezza in mezzo al porcile, rovinando all’istante lo sforzo del bagno e correndo il rischio che un enorme maiale finisse il lavoro iniziato dalla grassona.


Fuggì dal paese nudo, spaventato e con addosso puzza di merda, giurando a se stesso che non sarebbe mai più sceso dalle sue montagne, visto che il mondo delle valli e della costa gli era sembrato un luogo folle e oscuro, di cui si rifiutava di comprendere le regole di comportamento da quello stesso momento.
Perciò, quando in un piovoso mattino di maggio il fedele Bonifacio gli chiese di presenziare al funerale del signore della Casona, che aveva deciso di intraprendere – decisamente controvoglia – il finale Camino de Chipudes, per la prima volta nella sua vita fece orecchie da mercante e si limitò a osservare dalla chioma di un palmizio, che protendeva pericolosamente verso il vuoto, il lungo corteo funebre perdersi in lontananza.
Il nuovo signore della tenuta ci impiegò quasi tre mesi a prendere definitivamente residenza alla Casona, poiché nonostante l’avesse seminata di bastardi, il defunto non aveva lasciato alcun erede legittimo sull’isola e toccò a un nipote, giunto da terre molto lontane e dunque estraneo alle usanze locali, prendere possesso della splendida valle, dei monti circostanti, dei fitti boschi e delle centinaia di capre, maiali e pecore che pascolavano liberamente in lungo e in largo per quell’orografia tormentata, la più accidentata che si potesse trovare sulla superficie del pianeta.

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Indice
PREMESSA
INFANZIA
ADOLESCENZA
MATURITÀ

FAMIGLIA

martedì 22 novembre 2016

Hielo Negro: leggi l'anteprima gratuita dell'ebook

Hielo Negro

Di Bernando Fernandéz
Edizione digitale © 2016

Edizioni
Logus mondi interattivi
Traduzione: Roberta Botta
eBook design e cover: Pier Luigi Lai - Logus mondi interattivi

© Bernando Fernandéz, BEF.
c/o Schavelzon Graham Agenzia Literaria, S.L.
www.schavelzongraham.com

© Tutti i diritti riservati.
Vietata la riproduzione, anche parziale.
ISBN: 9788898062768





Bernando Fernandéz

HIELO NEGRO


* * *
Edizioni



Ci sono davvero poche persone con cui potrei
stare spalle a spalle in mezzo a una sparatoria.
Una di queste è Paco Haghenbeck
e perciò questo romanzo è dedicato a lui.


Love is a negative form of hate
(L’amore è una forma negativa di odio)

ROGER ZELAZNY, This Immortal





CAPITOLO 1

Un quarto d’ora prima che la sua testa esplodesse in mille pezzi, la guardia ausiliaria Ceferino Martínez, alias l’Oaxaca finì la sua ultima ronda notturna.
– Due e quattordici, qui è ventisette che parla, sto ritornando – informò la centrale via radio dalla guardiola. Era tutto in ordine.
Si sedette, sciolse il nodo della cravatta e accese la radio sulle frequenze di “Sabrosita”.
Inumidì con la lingua la punta di un Delicado senza filtro, gli piaceva il sapore dolce della carta di riso. Lo prese tra le labbra prima di accenderlo, come vedeva fare dai poliziotti nei film. Aspirò profondamente prima di soffiare una striscia azzurrognola.
Non gli rimaneva che aspettare il cambio di guardia tra un quarto d’ora, a mezzanotte precisa.
Diede un secondo tiro al sigaro. Ad ogni boccata, osservava con attenzione le evoluzioni del fumo. Trovò profondamente sensuali le forme circolari.
Gli ricordavano le natiche di sua moglie.
Ventiquattro ore prima era arrivato al suo turno di guardia ancora agitato dopo aver penetrato Margarita sul tavolo della piccola camera che avevano affittato a Iztapalapa.
La coppia, proveniente dalla costa di Oaxaca, si era stabilita nel pericoloso quartiere della Minerva. Lei lavorava come domestica. Ceferino aveva fatto il giardiniere finché non aveva trovato posto come guardia ausiliaria.
Dopo dieci anni di matrimonio e tre figli, l’Oaxaca continuava a trovare irresistibili le natiche di sua moglie. Trovava affascinante la delicata linea con la quale la sua vita si allargava sui fianchi, quel fondoschiena moro e vellutato che era solito percorrere con la lingua prima di prenderlo a morsi.
Pensava a questo, la guardia, masticando l’ultimo boccone dell’involtino che sua moglie gli aveva servito per cena, mentre lavava i piatti.


La moglie si inclinò sul lavandino per cercare il detersivo quando sentì le mani di suo marito palparla con lentezza.
– I bambini… mormorò, sapendo già che non sarebbe servito a nulla. In ogni caso i figli avrebbero fatto finta di dormire, impauriti dalla furia del padre.
Ceferino le aveva già alzato la gonna e abbassato le mutande. Margarita sentì subito i dolorosi morsi affondare nella sua carne. Pensò ai segni che di solito le lasciava.
– Pietà – lo pregò. Cosciente dell’inutilità delle sue suppliche, chiuse gli occhi. Sentì la prima spinta.
Ascoltò i gemiti di suo maritò. Strinse le labbra. A Ceferino non piaceva che si lamentasse. In qualche minuto tutto sarebbe finito, rimaneva solamente il dolore. Si rifugiò nell’altra camera, nascondendo le sue lacrime, affogando i suoi singhiozzi. Aveva paura di irritare suo marito.
– E non pensare di andartene, o ti faccio vedere l’inferno – disse Ceferino uscendo, mentre si tirava su i pantaloni.
Ventiquattro ore dopo, ricordandosi questo episodio mentre era in guardiola, ebbe un’erezione. “Aspetta che torno a casa, puttanella”, pensava fumando.
Semianalfabeta, l’Oaxaca presentò un certificato falso comprato in piazza Santo Domingo per cercare lavoro. Quando dovette seguire l’addestramento alla Cancerbero, l’agenzia di vigilanza privata in cui lavorava, gliene importò poco di non aver finito le elementari. Ceferino Martínez aveva sbagliato con il giardinaggio, era un poliziotto nato.
Di poche cose aveva beneficiato tanto quanto imparare a sparare o a maneggiare il randello. Varie volte era rientrato in casa ubriaco dopo aver bevuto con i colleghi finito l’addestramento, per fare pratica con le rinomate tecniche di persuasione e dominazione su Margarita e i bambini.
La cosa migliore era che non lasciavano segni né lividi.
Vigilanza Cancerbero, S.A di C.V., era un’agenzia di vigilanza privata fondata dal generale Díaz Barriga, esperto in sicurezza nazionale e in gruppi di ribelli elitari, morto anni prima in un incidente aereo.
Ora l’azienda era diretta dalla vedova del militare, la signora Conchita, una dolce anziana appassionata di armi da fuoco e tecniche di persuasione.
Ceferino, che iniziò potando il giardino della casa di Polanco dei Díaz Barriga, si era conquistato la simpatia della coppia con il suo sorriso e il suo impegno sul lavoro.
Con gli anni, dopo la morte del generale, l’Oaxaca diventò uno dei favoriti della signora Conchita grazie alla sua voglia di migliorarsi e all’impegno che metteva negli addestramenti.
Nessuno si sorprese quando l’Oaxaca salì rapidamente di grado nella Cancerbero fino a diventare supervisore. Ora era il responsabile del suo turno nella vigilanza dei laboratori medici Cubilsa.
Era un lavoro tranquillo, non si lamentava se non nei giorni come quello, in cui arrivava in laboratorio un carico di pseudo efedrina. Il container veniva scortato da soldati come se si trattasse di una bomba atomica.
Il personale amministrativo, tecnico e di sicurezza dell’impianto doveva firmare in triplice copia la ricezione della sostanza, e poi fare un meticoloso controllo del materiale.
– Sembra che trasportino coca ‘ste teste di cazzo – diceva l’Oaxaca a voce bassa a Goyito, un compaesano di Cuicatlán che lavorava ai suoi ordini.
– Porca puttana, la usano per lo sciroppo per la tosse – rispondeva Goyo ; me lo ha detto Aidita, una delle chimiche. La biondina.


Ceferino sapeva perfettamente di chi stesse parlando Goyo. Diverse volte aveva chiuso gli occhi mentre sodomizzava sua moglie immaginandosi di penetrare la tecnica di laboratorio.
Il procedimento durò diverse ore di fronte alla noia di tutti i presenti.
Verso le otto circa i soldati se ne andarono. Per le dieci, il laboratorio era vuoto, le due tonnellate della sostanza erano state depositate in magazzino.
Alle undici e trenta, dopo un giro infruttuoso al bagno dovuto alla sua stitichezza cronica, Ceferino fece un ultimo controllo nel laboratorio prima che i suoi colleghi gli dessero il cambio.
Ogni turno comprendeva un’unità di sei uomini che lavorava per ventiquattro ore e si riposavano per altrettante. Un laboratorio piccolo come il Cubilsa non aveva bisogno d’altro.
L’Oaxaca continuò a fumare fino a che il mozzicone gli bruciò le labbra, come quando fumava erba. Non lo faceva da quando la signora Conchita aveva stabilito il controllo antidoping mensile.
Goyo diceva che bevendo due bottiglie grandi di Gatorade azzurro l’esame delle urine diventava negativo. Ma all’Oaxaca, oltre a sembrargli costoso, non piaceva nemmeno quella robaccia. Preferiva trattenersi, non voleva perdere la fiducia della sua capa.
Ciò non gli impediva di portarsi via un paio di chili di roba buona ogni volta che andava al suo paese. Il suo miglior cliente era un collega di un altro turno, uno della Costa Grande che chiamavano l’Acapulquito dalla Costa Grande. “Quanto fuma quel testa di cazzo”, pensò Ceferino, divertito. Non aveva mai visto l’Acapulco risultare positivo all’antidoping. Né bere Gatorade azzurra.
Pestò il mozzicone sotto lo stivale. “Magari morissi”, cantava Pesado per radio.
Cinque minuti prima di morire, Ceferino chiuse gli occhi e pensò a Vanessa, la figlia della padrona di un bordello di Pochutla che lo aveva mandato a fottersi. Canticchiò un rap appassionato a occhi chiusi, ogni parola gli bruciava sulle labbra. Poteva vedere gli occhi neri di Vane sotto le sue ciglia spesse davanti a lui, poteva quasi toccarla.
Il campanello della porta suonò e lo riportò alla realtà.
“Ah cazzo, mancano tre minuti” pensò dopo aver guardato l’ora. Uno dei procedimenti della Cancerbero consisteva nel sincronizzare gli orologi.
Nel monitor l’Acapulquito l’osservava con uno sguardo assente.
– Tre e quattordici – Disse Ceferino allo schermo.
– Sedici – rispose l’Acapulco, come distratto.
– Hai la febbre amico? Chiese l’Oaxaca.
– Ehi– rispose l’amico, senza che Ceferino vedesse muovere le labbra.
– Procedo – avvertì e camminò fino alla porta. Lì, digitò la chiave di sicurezza che apriva le entrate.
– Cazzo Aca, porca puttana. Ti ho già detto di non fumare quando sei in servizio. Se la signora ti scopre ti appende per le palle – disse l’Oaxaca aprendo la porta.
Il guerrerense non rispose.
– E allora?
Il capo del nuovo turno svenne, Ceferino riuscì appena a schivare il corpo del suo amico. Una volta caduto davanti a lui, scoprì un coltello da macellaio infilzato nel capocollo di Acapulco, lì all’inizio della schiena.
L’Oaxaca non seppe che fare. Soffocò un grido in gola. Tolse la pistola dalla fondina. Avrebbe iniziato a sparare appena avesse alzato lo sguardo se non avesse trovato di fronte a lui un gorilla armato di un fucile.
Il secondo che ci mise a reagire gli costò la vita.
Se avesse avuto più tempo, avrebbe potuto assimilare che ciò che aveva davanti a lui era un uomo travestito da scimmia. Ma in quell’istante di confusione il gorilla alzò la doppia canna del suo fucile Mosseberg all’altezza degli occhi dell’Oaxaca e sparò.
Quando il corpo di Ceferino Martínez cadde per terra di schiena, era già morto. Altrimenti forse avrebbe goduto del modo quasi miracoloso in cui gli spasmi intestinali avevano curato la sua stipsi.
Probabilmente si sarebbe anche divertito a vedere come un commando di uomini travestiti da gorilla entravano nei Laboratori Cubilsa, S. A. di C. V., riducendo in pochi minuti gli altri cinque vigilanti del turno in cadaveri.
Una scena comica, degna di un film.
Vedere le scimmie far entrare un camion e caricare le due tonnellate di pseudo efedrina non avrebbe fatto tanto piacere all’Oaxaca.
Il giorno dopo ci sarebbe stato un gran caos. La signora Conchita l’avrebbe appeso per le palle, come le piaceva dire.
Fortunatamente, era morto.

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Indice completo dell'opera
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CAPITOLO 18
CAPITOLO 19
CAPITOLO 20
CAPITOLO 21
CAPITOLO 22
CAPITOLO 23
CAPITOLO 24
CAPITOLO 25
CAPITOLO 26
CAPITOLO 27
CAPITOLO 28
CAPITOLO 29
CAPITOLO 30
CAPITOLO 31
CAPITOLO 32
CAPITOLO 33
CAPITOLO 34
CAPITOLO 35
CAPITOLO 36
CAPITOLO 37
CAPITOLO 38
CAPITOLO 39
CAPITOLO 40
CAPITOLO 41
CAPITOLO 42
CAPITOLO 43
CAPITOLO 44
CAPITOLO 45
CAPITOLO 46
CAPITOLO 47
CAPITOLO 48
CAPITOLO 49
CAPITOLO 50
CAPITOLO 51
CAPITOLO 52
CAPITOLO 53
CAPITOLO 54
CAPITOLO 55
CAPITOLO 56
CAPITOLO 57
CAPITOLO 58
CAPITOLO 59
CAPITOLO 60
CAPITOLO 61
POST SCRIPTUM
Note
Biografia
BERNARDO FERNÁNDEZ, BEF