Hielo Negro
Di Bernando Fernandéz
Edizione digitale © 2016
Edizioni
Logus mondi interattivi
Traduzione: Roberta Botta
eBook design e cover: Pier Luigi Lai - Logus mondi interattivi
© Tutti i diritti riservati.
Vietata la riproduzione, anche parziale.
ISBN: 9788898062768
Bernando Fernandéz
HIELO NEGRO
* * *
Edizioni
Ci sono davvero poche persone con cui potrei
stare spalle a spalle in mezzo a una sparatoria.
Una di queste è Paco Haghenbeck
e perciò questo romanzo è dedicato a lui.
Love is a negative form of hate
(L’amore è una forma negativa di odio)
ROGER ZELAZNY, This Immortal
Un quarto d’ora prima che la sua testa esplodesse in mille pezzi, la guardia ausiliaria Ceferino Martínez, alias l’Oaxaca finì la sua ultima ronda notturna.
– Due e quattordici, qui è ventisette che parla, sto ritornando – informò la centrale via radio dalla guardiola. Era tutto in ordine.
Si sedette, sciolse il nodo della cravatta e accese la radio sulle frequenze di “
Sabrosita”.
Inumidì con la lingua la punta di un
Delicado senza filtro, gli piaceva il sapore dolce della carta di riso. Lo prese tra le labbra prima di accenderlo, come vedeva fare dai poliziotti nei film. Aspirò profondamente prima di soffiare una striscia azzurrognola.
Non gli rimaneva che aspettare il cambio di guardia tra un quarto d’ora, a mezzanotte precisa.
Diede un secondo tiro al sigaro. Ad ogni boccata, osservava con attenzione le evoluzioni del fumo. Trovò profondamente sensuali le forme circolari.
Gli ricordavano le natiche di sua moglie.
Ventiquattro ore prima era arrivato al suo turno di guardia ancora agitato dopo aver penetrato Margarita sul tavolo della piccola camera che avevano affittato a Iztapalapa.
La coppia, proveniente dalla costa di Oaxaca, si era stabilita nel pericoloso quartiere della Minerva. Lei lavorava come domestica. Ceferino aveva fatto il giardiniere finché non aveva trovato posto come guardia ausiliaria.
Dopo dieci anni di matrimonio e tre figli, l’Oaxaca continuava a trovare irresistibili le natiche di sua moglie. Trovava affascinante la delicata linea con la quale la sua vita si allargava sui fianchi, quel fondoschiena moro e vellutato che era solito percorrere con la lingua prima di prenderlo a morsi.
Pensava a questo, la guardia, masticando l’ultimo boccone dell’involtino che sua moglie gli aveva servito per cena, mentre lavava i piatti.
La moglie si inclinò sul lavandino per cercare il detersivo quando sentì le mani di suo marito palparla con lentezza.
– I bambini…
– mormorò, sapendo già che non sarebbe servito a nulla. In ogni caso i figli avrebbero fatto finta di dormire, impauriti dalla furia del padre.
Ceferino le aveva già alzato la gonna e abbassato le mutande. Margarita sentì subito i dolorosi morsi affondare nella sua carne. Pensò ai segni che di solito le lasciava.
– Pietà – lo pregò. Cosciente dell’inutilità delle sue suppliche, chiuse gli occhi. Sentì la prima spinta.
Ascoltò i gemiti di suo maritò. Strinse le labbra. A Ceferino non piaceva che si lamentasse. In qualche minuto tutto sarebbe finito, rimaneva solamente il dolore. Si rifugiò nell’altra camera, nascondendo le sue lacrime, affogando i suoi singhiozzi. Aveva paura di irritare suo marito.
– E non pensare di andartene, o ti faccio vedere l’inferno – disse Ceferino uscendo, mentre si tirava su i pantaloni.
Ventiquattro ore dopo, ricordandosi questo episodio mentre era in guardiola, ebbe un’erezione. “Aspetta che torno a casa, puttanella”, pensava fumando.
Semianalfabeta, l’Oaxaca presentò un certificato falso comprato in piazza Santo Domingo per cercare lavoro. Quando dovette seguire l’addestramento alla Cancerbero, l’agenzia di vigilanza privata in cui lavorava, gliene importò poco di non aver finito le elementari. Ceferino Martínez aveva sbagliato con il giardinaggio, era un poliziotto nato.
Di poche cose aveva beneficiato tanto quanto imparare a sparare o a maneggiare il randello. Varie volte era rientrato in casa ubriaco dopo aver bevuto con i colleghi finito l’addestramento, per fare pratica con le rinomate tecniche di persuasione e dominazione su Margarita e i bambini.
La cosa migliore era che non lasciavano segni né lividi.
Vigilanza Cancerbero, S.A di C.V., era un’agenzia di vigilanza privata fondata dal generale Díaz Barriga, esperto in sicurezza nazionale e in gruppi di ribelli elitari, morto anni prima in un incidente aereo.
Ora l’azienda era diretta dalla vedova del militare, la signora Conchita, una dolce anziana appassionata di armi da fuoco e tecniche di persuasione.
Ceferino, che iniziò potando il giardino della casa di Polanco dei Díaz Barriga, si era conquistato la simpatia della coppia con il suo sorriso e il suo impegno sul lavoro.
Con gli anni, dopo la morte del generale, l’Oaxaca diventò uno dei favoriti della signora Conchita grazie alla sua voglia di migliorarsi e all’impegno che metteva negli addestramenti.
Nessuno si sorprese quando l’Oaxaca salì rapidamente di grado nella Cancerbero fino a diventare supervisore. Ora era il responsabile del suo turno nella vigilanza dei laboratori medici Cubilsa.
Era un lavoro tranquillo, non si lamentava se non nei giorni come quello, in cui arrivava in laboratorio un carico di pseudo efedrina. Il container veniva scortato da soldati come se si trattasse di una bomba atomica.
Il personale amministrativo, tecnico e di sicurezza dell’impianto doveva firmare in triplice copia la ricezione della sostanza, e poi fare un meticoloso controllo del materiale.
– Sembra che trasportino coca ‘ste teste di cazzo – diceva l’Oaxaca a voce bassa a Goyito, un compaesano di Cuicatlán che lavorava ai suoi ordini.
– Porca puttana, la usano per lo sciroppo per la tosse – rispondeva Goyo
–; me lo ha detto Aidita, una delle chimiche. La biondina.
Ceferino sapeva perfettamente di chi stesse parlando Goyo. Diverse volte aveva chiuso gli occhi mentre sodomizzava sua moglie immaginandosi di penetrare la tecnica di laboratorio.
Il procedimento durò diverse ore di fronte alla noia di tutti i presenti.
Verso le otto circa i soldati se ne andarono. Per le dieci, il laboratorio era vuoto, le due tonnellate della sostanza erano state depositate in magazzino.
Alle undici e trenta, dopo un giro infruttuoso al bagno dovuto alla sua stitichezza cronica, Ceferino fece un ultimo controllo nel laboratorio prima che i suoi colleghi gli dessero il cambio.
Ogni turno comprendeva un’unità di sei uomini che lavorava per ventiquattro ore e si riposavano per altrettante. Un laboratorio piccolo come il Cubilsa non aveva bisogno d’altro.
L’Oaxaca continuò a fumare fino a che il mozzicone gli bruciò le labbra, come quando fumava erba. Non lo faceva da quando la signora Conchita aveva stabilito il controllo antidoping mensile.
Goyo diceva che bevendo due bottiglie grandi di Gatorade azzurro l’esame delle urine diventava negativo. Ma all’Oaxaca, oltre a sembrargli costoso, non piaceva nemmeno quella robaccia. Preferiva trattenersi, non voleva perdere la fiducia della sua capa.
Ciò non gli impediva di portarsi via un paio di chili di roba buona ogni volta che andava al suo paese. Il suo miglior cliente era un collega di un altro turno, uno della Costa Grande che chiamavano l’Acapulquito dalla Costa Grande. “Quanto fuma quel testa di cazzo”, pensò Ceferino, divertito. Non aveva mai visto l’Acapulco risultare positivo all’antidoping. Né bere Gatorade azzurra.
Pestò il mozzicone sotto lo stivale. “Magari morissi”, cantava Pesado per radio.
Cinque minuti prima di morire, Ceferino chiuse gli occhi e pensò a Vanessa, la figlia della padrona di un bordello di Pochutla che lo aveva mandato a fottersi. Canticchiò un rap appassionato a occhi chiusi, ogni parola gli bruciava sulle labbra. Poteva vedere gli occhi neri di Vane sotto le sue ciglia spesse davanti a lui, poteva quasi toccarla.
Il campanello della porta suonò e lo riportò alla realtà.
“Ah cazzo, mancano tre minuti” pensò dopo aver guardato l’ora. Uno dei procedimenti della Cancerbero consisteva nel sincronizzare gli orologi.
Nel monitor l’Acapulquito l’osservava con uno sguardo assente.
– Tre e quattordici – Disse Ceferino allo schermo.
– Sedici – rispose l’Acapulco, come distratto.
– Hai la febbre amico? Chiese l’Oaxaca.
– Ehi– rispose l’amico, senza che Ceferino vedesse muovere le labbra.
– Procedo – avvertì e camminò fino alla porta. Lì, digitò la chiave di sicurezza che apriva le entrate.
– Cazzo Aca, porca puttana. Ti ho già detto di non fumare quando sei in servizio. Se la signora ti scopre ti appende per le palle – disse l’Oaxaca aprendo la porta.
Il guerrerense non rispose.
– E allora?
Il capo del nuovo turno svenne, Ceferino riuscì appena a schivare il corpo del suo amico. Una volta caduto davanti a lui, scoprì un coltello da macellaio infilzato nel capocollo di Acapulco, lì all’inizio della schiena.
L’Oaxaca non seppe che fare. Soffocò un grido in gola. Tolse la pistola dalla fondina. Avrebbe iniziato a sparare appena avesse alzato lo sguardo se non avesse trovato di fronte a lui un gorilla armato di un fucile.
Il secondo che ci mise a reagire gli costò la vita.
Se avesse avuto più tempo, avrebbe potuto assimilare che ciò che aveva davanti a lui era un uomo travestito da scimmia. Ma in quell’istante di confusione il gorilla alzò la doppia canna del suo fucile Mosseberg all’altezza degli occhi dell’Oaxaca e sparò.
Quando il corpo di Ceferino Martínez cadde per terra di schiena, era già morto. Altrimenti forse avrebbe goduto del modo quasi miracoloso in cui gli spasmi intestinali avevano curato la sua stipsi.
Probabilmente si sarebbe anche divertito a vedere come un commando di uomini travestiti da gorilla entravano nei Laboratori Cubilsa, S. A. di C. V., riducendo in pochi minuti gli altri cinque vigilanti del turno in cadaveri.
Una scena comica, degna di un film.
Vedere le scimmie far entrare un camion e caricare le due tonnellate di pseudo efedrina non avrebbe fatto tanto piacere all’Oaxaca.
Il giorno dopo ci sarebbe stato un gran caos. La signora Conchita l’avrebbe appeso per le palle, come le piaceva dire.
Fortunatamente, era morto.
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