Inauguriamo il nostro blog " a porte aperte" con un articolo di Gordiano Lupi, autore, traduttore, blogger (su e per Cuba) e direttore de Il Foglio Letterario.
Gordiano ci parla di Heberto Padilla, uno dei poeti contemporanei cubani più importanti degli ultimi tempi, attraverso la traduzione di un suo scritto postumo ritrovato. Uno scritto decisamente romantico, nostalgico, e anche un po' arrabbiato, dedicato alla sua Cuba.
Nella Quinta Avenida il chiaro e tiepido sole di
inizio dicembre accentuava il colore degli alberi, del mare calmo e delle rose.
La notte precedente era soffiata un po’ d’aria invernale e qualche piccola onda
cominciava a superare il muro piatto della banchina dell’Avana, ma oggi la luce
era ancora scintillante e calda. Dal marciapiede del Malecón si sentiva il
rumore di tutta la città. Mi lasciai trasportare dalla folla in movimento,
raggiunsi il parco Maceo e continuai fino all’Avenida del Puerto. Le barche di
Casablanca erano decorate con le bandiere rosse e nere del Movimento 26 luglio
e nella baia si sentivano intonare canti rivoluzionari, che fino a poco prima
si ascoltavano solo clandestinamente. Questa per noi era la libertà. Non
sapevamo ancora cosa ci attendeva. Non lo potevamo sapere. Per noi quei barbudos che entravano vincitori
all’Avana, spavaldi, intrisi di eroismo, che portavano appiccicato ai vestiti
l’odore della polvere da sparo, rappresentavano la libertà e il cambiamento.
Ricordo le colombe volare sulle spalle d’un giovane condottiero e lo sguardo
fiero d’un argentino al suo fianco. Allora non potevo sapere che il primo era
un maestro di suggestive coreografie assetato di potere e il secondo soltanto un’idealista
che sarebbe andato a morire su un nuovo campo di battaglia. Era troppo presto.
Sono sempre stato fuori
dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro,
per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in
faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio
che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al
potere.
Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia,
un’isola che fin da bambino ha colpito i miei sensi, mi ha penetrato con il
cattivo odore, la puzza di sudore, i ritmi delle percussioni, il frastuono, il
gesticolare della gente, le radio a tutto volume e le voci da una finestra
all’altra che scambiano commenti e saluti. La mia Avana di periferia, terra di
confine tra il mondo che conta e la disillusione, la mia Avana ceduta pezzo
dopo pezzo a un’ideologia massacrante che ha distrutto la sua storia. Sono
stato parte di quel sogno, ho creduto che potesse cambiare in meglio la nostra
vita, mi sono trovato a naufragare tra le speranze, giorno dopo giorno. Non mi
sono accorto dei miracoli, ho trascorso intere giornate cavillando, ho sempre
trovato qualcosa da obiettare, non mi sono mai prestato al gioco.
Forse è stato questo il mio errore. Non dare tutto me stesso per sostenere i tempi difficili che attendevano di sconvolgere la nostra storia. Non seguire chi diceva che l’intellettuale nasce con il peccato originale e deve dimostrarsi redento. Non dare ascolto a chi affermava che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentrola Rivoluzione può
esserci libertà, ma per chi si chiama fuori non esistono diritti. Se avessi
gettato tutto me stesso nella lotta adesso non avrei eroi da pascolare nei
giardini, non mi sarei sentito fuori dal gioco, sarei stato utile alla mia
patria e non avrei dovuto dimenticare il sapore del mango colto da una pianta.
Non ci sono manghi a New York e neppure avocados.
Non vedo palme reali che toccano il cielo e neppure tristi avvoltoi neri che
scuotono immense ali dopo giornate di pioggia tra rami di gigantesche ceibas. Non sono mai riuscito a essere
ottimista, galante, ubbidiente, misurato, soprattutto non ce l’ho fatta a
camminare applaudendo. Non ero adatto a entrare nella nuova società. Non era
fatta per un poeta.
Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia, un’isola che fin da bambino ha colpito i miei sensi, mi ha penetrato con il cattivo odore, la puzza di sudore, i ritmi delle percussioni, il frastuono, il gesticolare della gente, le radio a tutto volume e le voci da una finestra all’altra che scambiano commenti e saluti.
Forse è stato questo il mio errore. Non dare tutto me stesso per sostenere i tempi difficili che attendevano di sconvolgere la nostra storia. Non seguire chi diceva che l’intellettuale nasce con il peccato originale e deve dimostrarsi redento. Non dare ascolto a chi affermava che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentro
“La vita è questo sogno! La vita è questo sogno!”
gridavano entusiasti gli uomini in verde olivo. E io mi chiedevo se la vita era
davvero questo sogno, pensavo a Calderon de la Barca e mi chiedevo se credesse sul serio che la
vita è un sogno, perché i miei giorni erano circondati da incubi. Non sono mai
stato capace di essere un eroe, sono soltanto un uomo fatalmente condannato a
vivere la mia epoca. Gli eroi non dialogano, ma progettano il futuro con
emozione, sono loro che ci guidano senza esitazione tra le braccia del domani e
alla fine ci impongono la violenta speranza. Non ho mai voluto far parte di
questo gioco, sono un poeta che non accetta l’eroismo, non ho niente a che
spartire con quel sentimento, credo che un eroe sia inutile, forse più inutile
di un poeta. Disgraziato il paese che ha bisogno di eroi!
Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo, sentivo
il mio cuore ebbro di vento e di fogliame diventare una cosa sola con le caldi
notti di agosto, persino nella memoria, persino nel rimpianto, anche quando
attraversavo le fredde strade di New York sotto una tormenta di neve. Erano i
paesaggi di quel tempo che mi sconvolgevano, si potevano vedere lungo tutta
Cuba, verdi, rossi, gialli, screpolandosi con l’acqua e il sole, veri paesaggi
di guerra. Il vento strappava i cartelloni della Coca Cola, gli orologi di
cortesia Canada Dry si fermavano all’ora vecchia e gli annunci al neon
distrutti, crepitavano sotto la pioggia. Uno della Standard Oil Company appariva
quasi illeggibile, ma sopra di lui troneggiavano due lettere rozze con le quali
qualcuno aveva scritto Patria o Morte.
Non accettavo questi simboli di violenza, ma il mio errore fatale è stato quello di scrivere, seguendo il mio istinto di poeta.
Ho finito per risvegliarmi mille volte cercando la
casa dove i miei genitori mi proteggevano dal mal tempo, cercando il pozzo nero
dove ascoltavo il gracidare delle rane e le falene che il vento faceva volare a
ogni istante. Adesso è impossibile tornare bambino e allora non mi resta che
gridare in una stanza vuota, perché gli anni sono perduti e non sono capace
neppure di cantarli. Sono accadute troppe cose che non ho compreso, sono
rimasto il personaggio rancoroso che ero, l’eterno insoddisfatto, l’inutile
poeta che dubita di troppe certezze. Mi sono accorto che il mio Paese era
governato da un uomo carismatico che cambiava piani e idee ogni volta che
pisciava. Ho capito che la situazione non ammetteva possibilità di critica, ma
solo accettare tutto con rassegnazione, nel bene e nel male.
Non era questa la mia Rivoluzione.
Caro vecchio Calderon, ammettendo pure che la vita è
sogno, non era quello il mio sogno. Era un’utopia imposta che non volevo
accettare e che non volevo trasmettere ai miei figli.
Il governo ha commesso errori inquietanti. Aprire le
UMAP per rinchiudere omosessuali, preti, santeros,
giovani rockettari, antisociali, magari anche qualche poeta, forse le persone
meno inquadrabili, non sanno chinare la testa e sono sempre insoddisfatti.
Abbiamo creato la
Rivoluzione del consenso. Fidel decide e riunisce il popolo
per un plebiscito a base di applausi.
No Calderon, scusami. Non era questo il mio sogno.
Il mio sogno era una terra che poteva dirsi libera.
Ricordo che dalla casa dei miei genitori potevo
spalancare la finestra e far salire l’odore penetrante del galán de noche che ricopriva il muro di cinta. Vivevo a Miramar e
vedevo crescere giorno dopo giorno il degrado del mio quartiere. Case che
soffrivano un abbandono decennale, giardini pieni di erbacce, panchine di
ferro, rugginose e scassate, terrazze deserte e semidistrutte. Soltanto durante
la notte Miramar risorgeva dalle ceneri e tornava all’antico splendore, perché
l’oscurità copriva le crepe e la sporcizia. La mia casa andava in rovina, come
quelle di tutti, senza rimedio, avrebbe finito per cadermi addosso, pure se mi
fossi adattato a vivere in poche stanze.
Gli stranieri cominciavano a venire a Cuba,
soprattutto russi e uomini di sinistra, frequentavano l’Hotel Nacional, potevo
vederli prendere il sole in piscina quando passeggiavo lungo il Malecón. Gli
stranieri provavano un’esaltazione morbosa nell’esporre al sole dei tropici le
loro pelli lattiginose, che i lunghi inverni conciano senza pietà. Bastavano
poche ore e assumevano la tinta rossiccia delle aragoste del Golfo, gli occhi
azzurri scintillavano sopra gli zigomi irritati. Questo era il nostro oro, la
sola ricchezza che potevamo regalare a piene mani. Sono stati questi stranieri
la nostra rovina, perché venivano a Cuba e approvavano tutto di questa
Rivoluzione spontanea. Niente istituzioni burocratiche, partecipazione diretta
del popolo alle decisioni, assenza e inutilità di un Parlamento. Non
immaginavano che lo Stato andava avanti nel modo peggiore, mascherato in tutte
le sue funzioni, agli ordini di un’unica testa autoritaria. Gli europei di
sinistra venivano a Cuba e approvavano tutto, ma la cosa assurda era che non avrebbero
mai accettato un simile sistema nei loro paesi. Erano ammalati di passione
aprioristica, si innamoravano del carisma di un uomo, si fidavano e si
lasciavano coinvolgere in un sogno che non era il nostro sogno, ma un sogno
imposto da un solo uomo. La Rivoluzione Cubana era una tirannia mascherata da
governo popolare, purtroppo. Parlavamo tra amici e ci sconvolgeva che
cominciassero a perseguitare le opinioni, che le volessero trasformare in un
delitto. I cubani trovano nello spirito, nella presa in giro, l’unico
meccanismo di difesa per affrontare le situazioni più drammatiche. Il cubano
diventa tragico solo nella pazzia. Il suo unico contatto veramente grave con le
cose si verifica nel momento in cui perde la sua identità. In quella situazione
rischiavamo molto, perché potevamo non renderci conto del dramma solo
rinunciando a pensare. Per me era impossibile.
Adesso sono in Alabama insieme a mia moglie Belkis, rimpiangiamo
la debole pioggerellina dell’inverno indefinito di Cuba, quando sul muro del
Malecón si alzano onde enormi e si infrangono sulle scogliere, fino a coprire i
giardini circostanti con una cortina d’acqua nebbiosa. Ricordiamo un vento
irreale che percuote imposte e finestre, cartelli dei parcheggi, serramenti
arrugginiti che scricchiolano, l’acqua che scende sulle auto e si infrange sui
parabrezza mentre il sole pare una macchia sbiadita. Nella nebbia del ricordo, la Quinta Avenida
coperta e seminascosta dalla cortina d’acqua diventa uno spettacolo
indimenticabile, sono come un sogno a occhi aperti gli alberi sempreverdi, d’un
verde scuro e splendente, il fogliame abbondante dei rampicanti, le ceibas imponenti, le piccole rane dagli
occhi vivaci e sporgenti, i passeri ostinati che si sollevano dall’erba
fradicia. Il mar pacífico è sempre
stato il fiore preferito di Belkis, che nelle notti cubane assaporava il
profumo intenso del galán de noche,
inerpicato sul muro della nostra casa, mentre lucertole saltavano tra rami e buganvillee
spinose. La nostra casa in rovina, seppellita da erbe e arbusti sarebbe andata
ancora più in rovina. La pioggia sottile di dicembre si sarebbe trasformata in
grosse gocce, il vento avrebbe cominciato a fare mulinelli, ammucchiando foglie
cadute vicino ai tombini in anelli di acqua torbida. Le nostre tempeste del
tropico erano solo un triste ricordo, quei piovaschi improvvisi che durano lo
spazio di pochi minuti e quei temporali che segnano il limite impreciso delle
stagioni. Ricordo con dolore l’immagine della Quinta Avenida immersa in un
firmamento confuso, una pianura di vento e acqua, un cielo torbido e senza
uccelli, una lamina neutra e spettrale contro la quale si proiettavano pali
enormi, divelti dalla furia del vento.
È stato in questo panorama spettrale di un giardino
distrutto dai venti che ho visto per l’ultima volta pascolare gli eroi. Eroi
perplessi come bambini, subitamente goffi e messi a terra, eroi che si
muovevano come spolette, con un rumore di pifferi e di flauti, eroi remotissimi
e attuali, che si muovevano come sanguisughe… erano i miei eroi. Pascolavano e
divoravano erba e arbusti senza sosta. Uomini, vecchi, donne e bambini, come
cannibali del tempo e della storia, divoratori di speranze, energici
costruttori di un futuro. Non li ho più visti. Non so che fine abbiano fatto,
purtroppo. Si sono persi, credo, perduti nel sogno di un uomo nuovo che non è
mai nato.
Sono accadute troppe cose alle quali avevo dovuto
adattarmi. Una Rivoluzione non si riduce agli entusiasmi iniziali, ai piani, ai
sogni, ai vecchi aneliti di redenzione e di giustizia sociale che si vogliono
realizzare. Ha anche il suo lato oscuro, difficile, quasi sporco: repressione,
vigilanza poliziesca eccessiva, sospetti, giudizi sommari, fucilazioni. Non
potevo accettare che non ci fosse scelta.
Eroi perplessi come bambini, subitamente goffi e messi a terra, eroi che si muovevano come spolette, con un rumore di pifferi e di flauti, eroi remotissimi e attuali, che si muovevano come sanguisughe… erano i miei eroi.
Belkis ricorda le nostre piogge tempestose e io
l’ascolto sotto la pioggia sottile degli inverni occidentali. La nostra sera d’inverno
arrivava quasi all’improvviso, senza darci il tempo di vedere altro che ombre
che si muovono intorno, di annusare odori provenienti dai più reconditi
cortili. Cade di colpo la sera e ci troviamo nelle tenebre a camminare senza
meta, guidati dall’incanto misterioso del calar della sera. Ricordi com’era
bello passeggiare sul Malecón? Sì, che lo ricordi Belkis, ma non rispondi, perché
non vuoi ammalarti di nostalgia. Il Malecón trasformato in un paesaggio senza
colori dalla notte cubana e poi tormentato da un acquazzone tropicale, con la
gente che fugge fradicia in cerca di riparo, vestiti attaccati al corpo,
capelli che grondano. In quei momenti era bello sedersi in un bar e attendere
che spiovesse, osservando ragazzi e ragazze che improvvisavano ritmi cubani, un
misto di guaguancó, rumba, mambo, guaracha, bevendo un sorso di rum e
accennando le parole d’un vecchio bolero…Non durava molto la pioggia tropicale
e allora si ripartiva come due ragazzi innamorati e senza pensieri lungo le
strade piene di mandorli e flamboyanes
della nostra capitale alla periferia del mondo. Il verde intenso era il colore
dominante della nostra vita e spesso mi immaginavo come una farfalla elegante
capace di volare di fiore in fiore. Attraversavo il ponte di ferro e osservavo
la fine illuminata dell’Almendares che si unisce al Moskvá, canale lercio e
nebuloso nel quale scintillano i miei ricordi. Sapevo che L’Avana era nata intorno
a questo fiume ed era da là che l’uomo nuovo doveva ricominciare. Non ero
preparato a entrare in questo gioco. La mia colpa è stata soltanto quella di
scriverlo. Ero un poeta, un personaggio fastidioso da allontanare, non potevo
fare diversamente.
Belkis mi parla dei carnevali avaneri durante queste
notti sempre uguali, tra grattacieli e fredde strade piene di gente
affaccendata che corre da un posto all’altro e pensa alle cose da fare. Ricorda
ragazzi e ragazze che entravano e uscivano dai ristoranti improvvisati,
soprattutto da La Piragua ,
traboccante di chilindrón, riso congrís e tamales. Il ghiaccio era tutto nei carnevali, non si trovava
ghiaccio in nessun locale avanero, ma solo nei bar lungo il Malecón che
servivano birra in grossi bicchieri di cartone paraffinato. Ricordo anch’io lo
scintillante scenario del carnevale, gli scogli e le acque della baia che
brillavano alla luce dell’imbrunire. Non potrei mai dimenticarlo. Non tanto per
i carri decorati che si spostavano dal castello del Morro e invadevano il
lungomare, ma per l’allegria della nostra gente che sento perduta per sempre.
Vivere con i ricordi è bello, pare quasi di non
invecchiare, ma vivere di ricordi fa morire in fretta di nostalgia. Non voglio
che accada. So che tutto questo non esiste più. Se cerco i profumi del mio
passato sento giornate intrise dell’aria salsa del tropico, una massa pesante e
oleosa che mi riempie i polmoni. Non possono impedirmi di continuare ad amare il
mio isolotto caldo e smisurato, ma ho scelto di abbandonarlo, di cancellare un
sogno che si era trasformato in un incubo. Un giorno ho deciso che non volevo
né comandare né obbedire, ma soltanto fuggire. Colpevole di aver scritto un
libro amaro, come amare sono certe verità, ma restano pur sempre verità, accusato di cospirazione contro lo Stato, di
aver sparso nei miei versi il veleno della Cia. Le mie poesie facevano più male
di una spada, come aveva detto Heredia anni prima, un poeta è una spina nel
fianco del tiranno se decide di essere sincero. Avevano messo in isolamento me
e Belkis per troppi anni, anche se non poterono impedire che Fuori del gioco vincesse il premio
nazionale di poesia assegnato dall’Uneac. Odiavano gli intellettuali, intrisi
del peccato originale, anche se a Cuba non erano in molti e c’era chi diceva
che passavano il tempo a cercare le quattro zampe del gatto.
Ho scritto un romanzo incompiuto che è il romanzo
della mia vita e quando me ne sono andato dalla mia terra l’ho portato via con
me, trattenendo una lacrima mentre dal finestrino di un aereo vedevo allontanarsi
sempre di più quella distesa brillante, quella miscela di verde e di luce che
nonostante tutto era la mia patria. Tutto quello che mi è rimasto di Cuba l’ho
messo nelle pagine dei miei libri. Spero solo che sia abbastanza.
Heberto
Padilla
Traduzione di Gordiano Lupi
Non trovate che sia una dichiarazione d'amore stupenda?
Chi era Heberto Padilla?
La Redazione
www.logus.it
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