Filippo Pace intervista Carla Deplano.
1. Come mai hai scelto un titolo così poco commerciale al tuo romanzo? Possiamo considerarla anche una scelta provocatoria?
Una
volta un’amica mi ha chiesto se fossi matta a dare un titolo così
lugubre ad un romanzo, aggiungendo che era tanto poco invitante alla
lettura, quanto deprimente. In realtà non ho avuto il benché minimo
dubbio sulla scelta: è perfettamente denotativa dello stato di forte
alterazione psico-fisica che mi ha avvolto e travolto all’indomani di
una perdita lacerante. Il vuoto come dimensione esistenziale ha dato
adito ad una serie di dinamiche e di riflessioni che hanno scandagliato
l’inconscio attraverso un tormentato percorso catartico. Diciamo che,
ben al di là delle finalità commerciali, è stata una scelta
autodeterminata e tutt’altro che provocatoria.
C’è
stata una gestazione di un anno in cui ho scritto compulsivamente
assecondando un bisogno fisiologico che alla lunga si è rivelato
terapeutico. Quindi ho tenuto Il vuoto nel cassetto e nel dimenticatoio,
nutrendo dubbi e remore circa la facoltà di esternare condizioni e
sentimenti privati che, per quanto ampiamente romanzati, partono pur
sempre da un nocciolo autobiografico abbastanza evidente. Alcuni
colleghi che negli anni avevano visionato le bozze, sentendosi
intimamente ed emotivamente coinvolti dai sentimenti descritti, mi hanno
sollecitato alla pubblicazione. In fondo, si tratta di luoghi archetipi
della mente e di condizioni esistenziali universali e per ciò stesso
familiari in cui ognuno, a suo modo, si può riconoscere ed identificare.
Alla fine, per quanto mi riguarda, la pubblicazione si configura come
ciò che gli antropologi chiamano “rito di passaggio”.
3. Una delle
peculiarità della tua opera è la diversità dei toni utilizzati: si passa
dal tragico, all’umorismo, al grottesco. Si tratta di una scelta voluta
sin dalla stesura dell’opera o è maturata nella fase della revisione?
Si tratta unicamente di assecondare i dinamismi di uno stato mentale in preda agli sbalzi d’umore. Non c’è
nulla
di predefinito e pianificato a tavolino. La varietà dei toni è una
naturale conseguenza dell’instabilità psichica. Chi legge Il vuoto ha la
percezione di una determinata condizione esistenziale, estremamente
vulnerabile e cangiante. D’altra parte, chi mi conosce bene, sa che
dietro l’apparenza leggera e ridanciana si cela quel groviglio
sentimentale che porta inevitabilmente verso le speculazioni più
disparate e disperate …
4. Quale funzione assegni alla Letteratura?
Una domanda da un milione … non avrei mai la presunzione di assegnare una funzione alla Letteratura!
Ken
Saro-Wiwa scriveva che "la Letteratura deve essere al servizio della
società immergendosi nella realtà, intervenendo, e gli scrittori non
possono semplicemente scrivere per intrattenere o per speculare sulla
società. Devono avere un ruolo attivo. La parola è potere, ed è ancora
più potente quando diventa d'uso comune. E questo è il motivo per cui
uno scrittore che prende parte, veicola il suo messaggio con più
efficacia di quello che invece scrive aspettando il tempo in cui si
realizzino le sue fantasie". Personalmente, a parte le mille funzioni
che la Letteratura può e deve avere, da quella proposta dal poeta
attivista nigeriano, in sintonia con le finalità dei teorici del
realsocialismo, a quella didattico-moraleggiante o pedagogica piuttosto
che satirica, la Letteratura mi dà il lusso di viaggiare nel tempo e
nello spazio, di esplorare nuovi mondi, di empatizzare con perfetti
sconosciuti: quale migliore potere se non quello di fare ancora sognare
mondi migliori e possibili o comunque diversi e altri? In questo risiede
fondamentalmente, io credo, il potere dell’arte. Mi sembra settoriale e
impoverente la velleità di imbrigliare la creatività all’interno dei
binari della funzione fine a se stessa. La ricchezza della Letteratura
consiste proprio nella sua varietà ed eterogeneità: unicuique suum!
5. Cecilia soffre di più perché ha maggiore consapevolezza di sé e della crisi di senso del mondo che la circonda?
A
parte la sensazione di vuoto generale che caratterizza la sua
generazione precaria, il male di vivere di Cecilia deriva,
sostanzialmente, da un buco affettivo che lei è incapace di colmare. La
sofferenza viene acuita da un transfert che segnerà uno spartiacque
nella sua psiche. Sarà proprio la maggiore consapevolezza di sé a
portarla ad una sorta di rinascita e di maturazione attraverso un
processo di comprensione, elaborazione e accettazione del dolore in
tutte le sue componenti e sfaccettature.
6. Che differenza intercorre, a tuo avviso, fra la comunicazione e la relazione?
Attraverso
la comunicazione si dà la stura all’otre di Eolo, prende vita il
sottobosco inaridito di sentimenti repressi e fuoriesce l’inaspettato:
il senso di abbandono, il tabù di una figura paterna castrante, il
groviglio sentimentale di un transfert limerente, le ferite
narcisistiche e tutte le cadute e le risalite di un percorso
autoanalitico di individuazione.
Si
tratta di una comunicazione mutila, di un epistolario a senso unico in
cui viene progressivamente esternato il pensiero della protagonista,
mentre quello del suo interlocutore – reale o immaginario che sia – è
solo intuibile dal prosieguo del carteggio. Una relazione virtuale in
tutti i sensi, che per sua stessa natura dà adito a equivoci,
incomprensioni e ferite difficilmente osservabili, nel loro crescendo,
in una relazione diretta e in una comunicazione verbale e prossemica. È
così che Giorgio diventa lo specchio che riflette parti di sé e permette
a Cecilia di conoscersi, di ritrovarsi, di dirsi la verità.
“Io
e il signor G viaggiamo evidentemente su due lunghezze d’onda parallele
e molto distanti, ognuno con i propri conflitti interiori ancora
irrisolti. Il nostro continua e (forse per inerzia) continuerà ad essere
un rapporto a distanza, informatico e digitale, di battute frizzi e
lazzi, segnalazioni e commenti critici di convegni e conferenze, fatti
di cronaca, concerti e rassegne cinematografiche d’essai che interessano
solo a noi. Ci vedremo secondo il caso, indifferenti per strada, a una
mostra o ad un concerto, senza appuntamenti predefiniti e sempre con la
sensazione, da parte mia, di disturbare qualora si dovesse sconfinare da
tali linee di superficie. Un saluto veloce, di quelli che non impegnano
il fisico in inutili strette toraciche, in avvinghiamenti oltremodo
ambigui ed imbarazzanti che non trovano giustificazioni se non in
un’invadenza ostentata. Frasi di rito “come stai?” che comportano
risposte adeguate “bene e tu?” ed altrettanto telegrafiche
contro-risposte “bene!”… È solo così che ci si può ri-conoscere: senza
fiutarsi, interrogarsi, interagire ed intendersi. Senza rischiare,
mantenendo le “giuste distanze” anti-contagio. Chissà, forse si può
invecchiare bene senza problemi di sorta protetti all’interno della
propria bolla apatica asettica antivirale...? Si vede che alcuni non
conoscono alternative. A me invece riesce molto difficile perché mi
sembra del tutto innaturale, pur aborrendo per natura l’invadenza. Ma
così è e non esistono vie mediane. Prendere o lasciare.
Fortunatamente sono circondata da persone che
mi vogliono bene, ma la cosa mi rattrista comunque.
Le amicizie di penna esistono, vero, e possono magari raggiungere
intensità neppure paragonabili a rapporti di amicizia più diretti … Per
quanto mi riguarda credo che un’amicizia degna di questo nome non
equivalga o si riduca esclusivamente a qualche link semiserio relativo
ad altro da noi, a segnalazioni d’ufficio, auguri a distanza e freddure:
perché significherebbe che senza il medium computer non avremmo
occasione e modo e voglia di comunicare altrimenti. Perché non
esisteremmo.
O forse è meglio nascondersi e nascondere sempre e comunque tutto sotto
il tappeto, non apparire per quello che si è ma con la maschera che ci
si è costruiti e imposti come corazza contro le minacce esterne, non
essere ri-conosciuti ma conosciuti e come tali stimati a distanza ?
7. Anche con ironia,
nel tuo romanzo fai riferimento alla musica e allo sport: che ruolo
hanno questi nella tua vita e quale funzione assegni loro?
Non
potrei mai vivere senza la musica, ce l’ho nel sangue. A parte rap ed
heavy metal ascolto con ingordigia tutti i generi musicali, ma ogni fase
e stagione della mia vita è sempre stata scandita da un genere
preponderante. Quand’ero al liceo adoravo la musica degli anni ’60, ’70 e
’80, ora non riesco più ad ascoltare i Beatles: ho fatto indigestione o
forse solo una damnatio memoriae di un periodo difficile. Durante i
nove mesi di gestazione Mozart aveva una funzione incredibilmente
rasserenante e spesso appoggiavo le cuffie sulla pancia per far arrivare
meglio le vibrazioni a mia figlia. Ci sono tantissime musiche, come il
concerto per piano e orchestra n. 3 di Rachmaninov o Il Lago dei cigni
di Prokofiev, che toccano le corde dell’anima e vibrano dentro dandomi
le stesse potenti emozioni provate al primo ascolto. Durante l’“anno
scolastico” non mi perdo un concerto di musica classica, ma d’estate si
risveglia il bisogno fisiologico di ballare e di musica commerciale!
Per
quanto riguarda lo sport, ho sempre fatto mio il motto mens sana in
corpore sano: tempra il fisico e la mente, sviluppa adrenalina e
endorfine ed è il migliore sfogo salutare. Quest’anno vorrei riprendere
il tennis dopo una lunga pausa: giocare con il proprio compagno, oltre
che divertente, è una terapia di coppia efficacissima perché mette in
moto l’ossitocina.
8. Come definisci la tua esperienza con l’ebook?
Trattandosi
di un epistolario telematico, espletato sottoforma di mail, è chiaro
che l’e-book sia stata la forma di pubblicazione più appropriata, ma mi
rendo conto che nel nostro Paese si fa ancora molta fatica a concepire
un libro in un formato “diversamente cartaceo”.
9. A quali progetti, nel frattempo, lavori? Hai in gestazione un nuovo romanzo?
Nel
frattempo sono in vacanza e la spina è ancora staccata. Le sinapsi si
riattiveranno non appena inizierà la scuola e allora mi dedicherò
maniacalmente alla ricerca storico-artistica-antropologica. In cantiere,
per ora, c’è un catalogo on-line di una mostra d’arte contemporanea che
ho recentemente contribuito a curare. Poi, forse, seguirà Il pieno …
10. Infine: quando
sei andata a portare la frutta a Filippo Pace, durante il suo lungo
internamento in manicomio, come lo hai trovato?
Sono
andata fino a Chia per cercargli i suoi fichi preferiti, ma non ho
fatto a tempo ad arrivare al manicomio che aveva già cambiato identità e
chiedeva solo banane di Santo Domingo!
(intervista tratta dal blog di Filippo Pace - Grazie per la gentile concessione)
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