giovedì 29 agosto 2013

"Il vuoto" denso di Carla Deplano: un'intervista di Filippo Pace

  Filippo Pace intervista Carla Deplano.
 
1. Come mai hai scelto un titolo così poco commerciale al tuo romanzo? Possiamo considerarla anche una scelta provocatoria?

Una volta un’amica mi ha chiesto se fossi matta a dare un titolo così lugubre ad un romanzo, aggiungendo che era tanto poco invitante alla lettura, quanto deprimente. In realtà non ho avuto il benché minimo dubbio sulla scelta: è perfettamente denotativa dello stato di forte alterazione psico-fisica che mi ha avvolto e travolto all’indomani di una perdita lacerante. Il vuoto come dimensione esistenziale ha dato adito ad una serie di dinamiche e di riflessioni che hanno scandagliato l’inconscio attraverso un tormentato percorso catartico. Diciamo che, ben al di là delle finalità commerciali, è stata una scelta autodeterminata e tutt’altro che provocatoria.

2. Quanto tempo hai impiegato a scrivere Il vuoto?

C’è stata una gestazione di un anno in cui ho scritto compulsivamente assecondando un bisogno fisiologico che alla lunga si è rivelato terapeutico. Quindi ho tenuto Il vuoto nel cassetto e nel dimenticatoio, nutrendo dubbi e remore circa la facoltà di esternare condizioni e sentimenti privati che, per quanto ampiamente romanzati, partono pur sempre da un nocciolo autobiografico abbastanza evidente. Alcuni colleghi che negli anni avevano visionato le bozze, sentendosi intimamente ed emotivamente coinvolti dai sentimenti descritti, mi hanno sollecitato alla pubblicazione. In fondo, si tratta di luoghi archetipi della mente e di condizioni esistenziali universali e per ciò stesso familiari in cui ognuno, a suo modo, si può riconoscere ed identificare. Alla fine, per quanto mi riguarda, la pubblicazione si configura come ciò che gli antropologi chiamano “rito di passaggio”.

3. Una delle peculiarità della tua opera è la diversità dei toni utilizzati: si passa dal tragico, all’umorismo, al grottesco. Si tratta di una scelta voluta sin dalla stesura dell’opera o è maturata nella fase della revisione?

Si tratta unicamente di assecondare i dinamismi di uno stato mentale in preda agli sbalzi d’umore. Non c’è 
nulla di predefinito e pianificato a tavolino. La varietà dei toni è una naturale conseguenza dell’instabilità psichica. Chi legge Il vuoto ha la percezione di una determinata condizione esistenziale, estremamente vulnerabile e cangiante. D’altra parte, chi mi conosce bene, sa che dietro l’apparenza leggera e ridanciana si cela quel groviglio sentimentale che porta inevitabilmente verso le speculazioni più disparate e disperate …

4. Quale funzione assegni alla Letteratura?

Una domanda da un milione … non avrei mai la presunzione di assegnare una funzione alla Letteratura!
Ken Saro-Wiwa scriveva che "la Letteratura deve essere al servizio della società immergendosi nella realtà, intervenendo, e gli scrittori non possono semplicemente scrivere per intrattenere o per speculare sulla società. Devono avere un ruolo attivo. La parola è potere, ed è ancora più potente quando diventa d'uso comune. E questo è il motivo per cui uno scrittore che prende parte, veicola il suo messaggio con più efficacia di quello che invece scrive aspettando il tempo in cui si realizzino le sue fantasie". Personalmente, a parte le mille funzioni che la Letteratura può e deve avere, da quella proposta dal poeta attivista nigeriano, in sintonia con le finalità dei teorici del realsocialismo, a quella didattico-moraleggiante o pedagogica piuttosto che satirica, la Letteratura mi dà il lusso di viaggiare nel tempo e nello spazio, di esplorare nuovi mondi, di empatizzare con perfetti sconosciuti: quale migliore potere se non quello di fare ancora sognare mondi migliori e possibili o comunque diversi e altri? In questo risiede fondamentalmente, io credo, il potere dell’arte. Mi sembra settoriale e impoverente la velleità di imbrigliare la creatività all’interno dei binari della funzione fine a se stessa. La ricchezza della Letteratura consiste proprio nella sua varietà ed eterogeneità: unicuique suum!

5. Cecilia soffre di più perché ha maggiore consapevolezza di sé e della crisi di senso del mondo che la circonda?

A parte la sensazione di vuoto generale che caratterizza la sua generazione precaria, il male di vivere di Cecilia deriva, sostanzialmente, da un buco affettivo che lei è incapace di colmare. La sofferenza viene acuita da un transfert che segnerà uno spartiacque nella sua psiche. Sarà proprio la maggiore consapevolezza di sé a portarla ad una sorta di rinascita e di maturazione attraverso un processo di comprensione, elaborazione e accettazione del dolore in tutte le sue componenti e sfaccettature.



6. Che differenza intercorre, a tuo avviso, fra la comunicazione e la relazione?

Attraverso la comunicazione si dà la stura all’otre di Eolo, prende vita il sottobosco inaridito di sentimenti repressi e fuoriesce l’inaspettato: il senso di abbandono, il tabù di una figura paterna castrante, il groviglio sentimentale di un transfert limerente, le ferite narcisistiche e tutte le cadute e le risalite di un percorso autoanalitico di individuazione.
Si tratta di una comunicazione mutila, di un epistolario a senso unico in cui viene progressivamente esternato il pensiero della protagonista, mentre quello del suo interlocutore – reale o immaginario che sia – è solo intuibile dal prosieguo del carteggio. Una relazione virtuale in tutti i sensi, che per sua stessa natura dà adito a equivoci, incomprensioni e ferite difficilmente osservabili, nel loro crescendo, in una relazione diretta e in una comunicazione verbale e prossemica. È così che Giorgio diventa lo specchio che riflette parti di sé e permette a Cecilia di conoscersi, di ritrovarsi, di dirsi la verità.
“Io e il signor G viaggiamo evidentemente su due lunghezze d’onda parallele e molto distanti, ognuno con i propri conflitti interiori ancora irrisolti. Il nostro continua e (forse per inerzia) continuerà ad essere un rapporto a distanza, informatico e digitale, di battute frizzi e lazzi, segnalazioni e commenti critici di convegni e conferenze, fatti di cronaca, concerti e rassegne cinematografiche d’essai che interessano solo a noi. Ci vedremo secondo il caso, indifferenti per strada, a una mostra o ad un concerto, senza appuntamenti predefiniti e sempre con la sensazione, da parte mia, di disturbare qualora si dovesse sconfinare da tali linee di superficie. Un saluto veloce, di quelli che non impegnano il fisico in inutili strette toraciche, in avvinghiamenti oltremodo ambigui ed imbarazzanti che non trovano giustificazioni se non in un’invadenza ostentata. Frasi di rito “come stai?” che comportano risposte adeguate “bene e tu?” ed altrettanto telegrafiche contro-risposte “bene!”… È solo così che ci si può ri-conoscere: senza fiutarsi, interrogarsi, interagire ed intendersi. Senza rischiare, mantenendo le “giuste distanze” anti-contagio. Chissà, forse si può invecchiare bene senza problemi di sorta protetti all’interno della propria bolla apatica asettica antivirale...? Si vede che alcuni non conoscono alternative. A me invece riesce molto difficile perché mi sembra del tutto innaturale, pur aborrendo per natura l’invadenza. Ma così è e non esistono vie mediane. Prendere o lasciare.
Fortunatamente sono circondata da persone che mi vogliono bene, ma la cosa mi rattrista comunque. Le amicizie di penna esistono, vero, e possono magari raggiungere intensità neppure paragonabili a rapporti di amicizia più diretti … Per quanto mi riguarda credo che un’amicizia degna di questo nome non equivalga o si riduca esclusivamente a qualche link semiserio relativo ad altro da noi, a segnalazioni d’ufficio, auguri a distanza e freddure: perché significherebbe che senza il medium computer non avremmo occasione e modo e voglia di comunicare altrimenti. Perché non esisteremmo. O forse è meglio nascondersi e nascondere sempre e comunque tutto sotto il tappeto, non apparire per quello che si è ma con la maschera che ci si è costruiti e imposti come corazza contro le minacce esterne, non essere ri-conosciuti ma conosciuti e come tali stimati a distanza ?
È un atteggiamento difensivo che posso comprendere, ma non per questo condividere”.
7. Anche con ironia, nel tuo romanzo fai riferimento alla musica e allo sport: che ruolo hanno questi nella tua vita e quale funzione assegni loro?

Non potrei mai vivere senza la musica, ce l’ho nel sangue. A parte rap ed heavy metal ascolto con ingordigia tutti i generi musicali, ma ogni fase e stagione della mia vita è sempre stata scandita da un genere preponderante. Quand’ero al liceo adoravo la musica degli anni ’60, ’70 e ’80, ora non riesco più ad ascoltare i Beatles: ho fatto indigestione o forse solo una damnatio memoriae di un periodo difficile. Durante i nove mesi di gestazione Mozart aveva una funzione incredibilmente rasserenante e spesso appoggiavo le cuffie sulla pancia per far arrivare meglio le vibrazioni a mia figlia. Ci sono tantissime musiche, come il concerto per piano e orchestra n. 3 di Rachmaninov o Il Lago dei cigni di Prokofiev, che toccano le corde dell’anima e vibrano dentro dandomi le stesse potenti emozioni provate al primo ascolto. Durante l’“anno scolastico” non mi perdo un concerto di musica classica, ma d’estate si risveglia il bisogno fisiologico di ballare e di musica commerciale!
Per quanto riguarda lo sport, ho sempre fatto mio il motto mens sana in corpore sano: tempra il fisico e la mente, sviluppa adrenalina e endorfine ed è il migliore sfogo salutare. Quest’anno vorrei riprendere il tennis dopo una lunga pausa: giocare con il proprio compagno, oltre che divertente, è una terapia di coppia efficacissima perché mette in moto l’ossitocina.

8. Come definisci la tua esperienza con l’ebook?

Trattandosi di un epistolario telematico, espletato sottoforma di mail, è chiaro che l’e-book sia stata la forma di pubblicazione più appropriata, ma mi rendo conto che nel nostro Paese si fa ancora molta fatica a concepire un libro in un formato “diversamente cartaceo”.

9. A quali progetti, nel frattempo, lavori? Hai in gestazione un nuovo romanzo?

Nel frattempo sono in vacanza e la spina è ancora staccata. Le sinapsi si riattiveranno non appena inizierà la scuola e allora mi dedicherò maniacalmente alla ricerca storico-artistica-antropologica. In cantiere, per ora, c’è un catalogo on-line di una mostra d’arte contemporanea che ho recentemente contribuito a curare. Poi, forse, seguirà Il pieno …

10. Infine: quando sei andata a portare la frutta a Filippo Pace, durante il suo lungo internamento in manicomio, come lo hai trovato?

Sono andata fino a Chia per cercargli i suoi fichi preferiti, ma non ho fatto a tempo ad arrivare al manicomio che aveva già cambiato identità e chiedeva solo banane di Santo Domingo!

(intervista tratta dal blog di Filippo Pace - Grazie per la gentile concessione)

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