Sebbene
siano oramai trascorsi ben 213 anni da quella lontana notte del 2
settembre del 1798, l’episodio della razzia di Carloforte ad opera
dei pirati barbareschi rimane ancora ricordo indelebile nei
discendenti di quella gente fatta schiava.
Nella
vasta produzione letteraria “tabarkina” l’episodio è stato
raccontato con certosina erudizione da una foltissima schiera di
storici e saggisti che ne hanno indagato e sviscerato ogni più
recondito particolare.
L’episodio,
tra l’altro, ebbe vasto risalto, per quel che naturalmente
consentivano le capacità d’informazione dell’epoca, anche in
campo europeo ed un secolo più tardi, esattamente nel 1903,
sollecitò pure le fantasie del maggiore interprete italiano del
romanzo d’avventura, un tal Emilio Salgari (sic), che scrisse “Le
pantere d’Algeri” ispirandosi a quella triste vicenda.
Alcuni
anni fa, ragionando con un amico su quell’avvenimento, nacque
l’idea di scrivere un romanzo, puntando a creare qualcosa che
riuscisse a distinguersi dalla produzione letteraria, ancorché
pregevole, del passato. Qualcosa, che seppure partendo dal fatto
storico, si spostasse su d’un piano di piena fantasia, permettendo
all’autore di plasmare un mondo immaginario e tuttavia
verosimigliante.
Il
progetto si trascinò per diversi anni senza andare in porto, l’amico
andò in pensione e tutto finì nel dimenticatoio. Tuttavia nel
giugno del 2008, mi decisi a riprenderlo in mano, puntando a creare
una storia, una sorta di thriller, ambientata ai giorni nostri, ma
che affondava le radici del mistero nell’episodio della razzia del
1798.
Nella
sua struttura narrativa il romanzo prevedeva un capitolo ambientato a
fine settecento incentrato sulla tormentata figura del Rais, capo
della spedizione, che ragionando con se stesso, rappresentava un
resoconto della razzia, svelando al lettore che all’origine della
stessa vi fosse in realtà un traditore isolano.
Insospettatamente
il capitolo si è trasformato, sino a divenire esso stesso un
romanzo. I personaggi si sono moltiplicati e la storia è andata a
suddividersi in tante piccole vicende, originando un componimento
corale, dove il tutto acquisisce un senso solo attraverso il concorso
di tutti. Un grande fiume che giustifica la grande massa delle sue
acque esclusivamente nell’apporto dei numerosi affluenti.
Questo
fatto mi ha consentito di descrivere un mondo non necessariamente
costretto all’interno dei confini isolani, e quantunque nel testo
ne viene comunque ribadita la centralità, ci si è concessa
l’opportunità di rappresentare luoghi, culture, stati d’animo,
completamenti eterogenei, seppur legati tra loro dalla ridondanza di
un onnipresente Mare Nostrum.
“Venti
da Sud Ovest” è così diventato una sorta di feuilleton moderno,
scritto con uno stile volutamente semplice ma mai banale, con
l’intento di dilettare il lettore ma anche costringerlo a
confrontarsi con l’animo e le azioni dei diversi personaggi. Nel
tentativo di creare situazioni d’empatia che riuscissero a farlo
diventare parte di quel mondo per simpatizzare e detestare, sorridere
e commuoversi, compartecipe dei sentimenti di Hassan, Giovanna,
Nettigna, Turìn, Francesca, Juan Mario e dei numerosi altri
protagonisti.
Per
raggiungere questo obbiettivo ho fatto ricorso a tutta una serie di
registri narrativi che, partendo dal grande romanzo ottocentesco,
sono andati a contaminarsi tra loro, in una sorta di sincretismo
letterario, avente l’unico scopo di condurre il lettore nel
proseguo della storia/e, sino al rimpianto ultimo che “quel
grosso mattone”
è giunto, purtroppo, al termine!
Mariano Strina
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